Insegnare l’empatia
Nelle ultime settimane, sulle pagine dell’Avvenire — quotidiano sempre più interessante nella lettura della società — è avvenuto uno scambio stimolante tra Daniele Novara, pedagostista e fondatore del CPP, e Massimiliano Padula, sociologo e docente dellUniversità Lateranense.
Novara è partito dall’analisi del fenomeno dei bambini “picchiatori” collegandolo al “long covid educativo” che sta interessando le famiglie italiane. Secondo Novara, questa dinamica inaspettata ha prodotto un sorprendente rovesciamo dei ruoli, se per le generazioni precedenti, l’utilizzo della violenza si dipanava lungo la frattura padri-figli — come non menzionare lo struggente romanzo di Gavino Ledda Padre Padrone — nella contemporaneità assistiamo all’emersione del bambino tiranno. Bambini dai 3 ai 9 anni — scrive Novara — che “aggrediscono i genitori quando non fanno ciò che desiderano, quando sono arrabbiati, quando si crea un cortocircuito fra i loro desideri e la resistenza degli adulti”. La figura genitoriale ha progressivamente smarrito il tratto dell’autorevolezza, così il genitore educativo diviene compagno di giochi. L’accondiscendenza genitoriale — prosegue Novara — limita il percorso dell’autonomia del bambino e, parafrasando Maria Montessori, non si può essere liberi se non si è indipendenti. Solo sperimentando libertà e indipendenza, il bambino può accrescere la conoscenza del mondo, “imparare a fare” e, dunque, sentire di “essere capace”. Riscoprire il ruolo educativo del genitore, per ristabilire il giusto equilibrio tra cura e libertà, anche attraverso alcune proibizioni, “niente lettone dal quarto anno di vita, niente servizievolezze”, conclude Novara.
Alla riflessione di Novara, ha replicato Massimiliano Padula. Il modello di convivenza familiare nucleare non è certamente un fenomeno odierno, secondo Padula, ma risale all’affermazione della “modernità ottocentesca”, alla vittoria della città sulla compagna, alla necessità di concentrazione spaziale del nascente capitalismo industriale sul rispetto alla dispersione puntiforme della società agricola pre-moderna. Eppure, secondo Novara, non dovremmo limitarci ad osservare fenomeni carichi di “negatività”, vi sono “manifestazione di genitorialità matura, costruttiva e capace di costruire relazioni sane con i propri bambini” che meriterebbero di essere condivise. E forse, conclude Padula, non sono le proibizioni le soluzioni più adeguate a favorire lo sviluppo dell’autonomia del bambino.
Leggendo questo scambio, ho immediatamente pensato al lavoro dell’Ashoka Fellow, Mary Gordon. La riflessione della Gordon si basa sulla sua esperienza di educatrice, mettendo al centro dello sviluppo armonico del bambino la nozione dell’empatia. In “Roots of Empathy”, Gordon sostiene che ogni qualvolta un adulto non ascolta e non risponde a una manifestazione emozionale del bambini, lo sta deprivando del suo “ossigeno emotivo”. Eppure, scrive Gordon, la conoscenza può influenzare le nostre decisioni, ma sono le emozioni i più potenti driver del cambiamento comportamentale: “l’emozione, non l’informazione, genera la scelta”. Educare all’empatia arricchisce il bagaglio emotivo del bambino, gli fornisce la prima strumentazione per agire significativamente nel mondo che lo circonda, generando relazioni appaganti con i propri pari e con gli adulti. Educare all’empatia non dovrebbe limitarsi ad essere una missione esclusivamente genitoriale, ma divenire un grande obiettivo della comunità. Spesso, il dibattito sull’educazione si focalizza su quali competenze specifiche debbano far parte del curricolo, eppure la velocità impressa dai cambiamenti tecnologici rende paradossalmente già obsoleto ciò che pensiamo sia oggi una competenza del futuro. E se invece, come ci sollecita Mary Gordon, provassimo a insegnare l’empatia, quale potrebbe essere il modello di una società empatica? Pensiamo, ad esempio, alla capacità di una società educata all’empatia nel risolvere i conflitti o nel generare inclusività. Individui capaci di riconoscersi reciprocamente, leggendo rispettivamente le proprie emozioni, di comprendere in profondità le interdipendenze che ci legano, non solo tra di noi, ma con il pianeta. E allora, se dovessi suggerire cosa vorrei che insegnasse la scuola alle future generazioni, risponderei immediatamente: l’empatia.