L’innovazione e il ruolo delle fondazioni, appunti da Breaking Bad (habits).

Federico Mento
3 min readMar 12, 2024

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Foto di Matt Cornock

La scorsa settimana ho avuto il piacere di partecipare all’evento “Breaking Bad (Habits) — How can foundations move from siloes to shaping future innovation ecosystems?”, promosso da Philea. Gli amici di Philea mi hanno assegnato un compito difficile, ma allo stesso tempo intellettualmente molto stimolante, cercare di raccogliere e presentare alcuni insight del panel “Adding value for impact: The role of foundations”. Difficile, appunto, per la ricchezza e profondità degli spunti emersi dalla discussione, ottimamente moderata da Vivienne Parry. Il confronto si è mosso sul ruolo delle fondazioni nel supportare l’innovazione, con punti di vista diversi. Alessia Gianoncelli, di Impact Europe, ha evidenziato la necessità che le Fondazioni vadano oltre l’approccio prettamente erogativo, muovendosi lungo lo “spectrum of capital”. Antonio Miguel, fondatore di Maze, la cui esperienza è direttamente collegata all’ecosistema portoghese e alla Fondazione Calouste Gulbenkian, si è soffermato, da un lato, sull’agilità degli attori filantropici rispetto al settore pubblico, dall’altro sulla capacità di convocazione che le Fondazioni hanno e spesso non utilizzano a dovere. A sua volta, Stephan Rauscher, di EarlyBird Venture Capital, fondo attivo nel settore delle tecnologie, ha enfatizzato l’avversità al rischio che a suo avviso contraddistingue l’operato delle Fondazioni, suggerendo al sistema della filantropia di agire nella logica di cluster. Infine, Karin Roscoe, di Impact Partners, ha provato ad inscrivere l’azione delle fondazioni nel binomio struttura- serendipità. Negli interventi, la questione del rapporto tra innovazione e gestione del rischio da parte delle Fondazioni è emersa con continuità. Ritengo che le Fondazioni filantropiche siano governate costitutivamente dalla tensione tra cura e rischio. Dove il primo termine, rimanda sia alla necessità di curare, preservandolo, il proprio patrimonio, da cui scaturisce la capacità di agire, sia la cura della comunità nella quale si intende operare. Di contro, il rischio è insito sia nella gestione delle risorse filantropiche, siano esse il patrimonio da impiegare in investimenti, oppure le linee di budget allocate sui programmi. Come muoversi dentro questa tensione? Ma soprattutto come affrontare sfide sociali che sono inedite e mettono alla prova strumenti e convinzioni consolidate? Lo ha espresso con grande efficacia Antonio Miguel, le fratture sociali non possono più essere ridotte all’occupabilità, e quindi al reddito, ma sono oggi molto più profonde, sistemiche. Pertanto, fare innovazione non è un vezzo, per alimentare l’ego delle Fondazioni — riprendendo l’intervento di Marco Gerevini — ma diviene una necessità. E quindi occorre lavorare per cluster, costruire alleanze di scopo, usare approcci erogativi diversificati e responsivi, abbracciare modelli “trust-based” ecc. Ma, tornando al tema delle sfide, la questione è profondamente strategica. Nel corso del dibattito, si è lungamente discusso di metriche, cosa misurare, come misurare, usare misure standardizzate, avere misure più specifiche. Per certi versi, la necessità di semplificazione, soprattutto per coloro che si muovono dentro logiche di investimento, poche cose, ma molto tangibili, per ridurre costi e complessità. Qui, a mio avviso, il ragionamento mostra delle debolezze, se l’ipotesi è quella di un’accelerazione esponenziale del cambiamento, come afferrare questa velocità con poche metriche misurabili? Quindi, non è tanto quale metrica scegliere, ma quali lenti utilizzare per leggere la complessità, e di conseguenza disegnare soluzioni che devono necessariamente essere sistemiche. Da tempo, la filantropia internazionale si interroga su come supportare modelli di cambiamento sistemico, forse è il caso di iniziare a parlarne anche in Italia.

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Federico Mento
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